UBER, COSA SIGNIFICA IL MAXIACCORDO CON GLI AUTISTI AMERICANI





L'accordo firmato da Uber con l'esercito di 385mila autisti statunitensi raccolti in due pachidermiche class action cambierà molte cose. Perchè anticipa il dibattito occupazionale che prima o poi sbarcherà anche in Europa. La Società Californiana è alle prese con il problema dello status dei suoi autisti esploso negli ultimi mesi in America e che ha spostato l'asticella della discussione sulle nuove forme di economia (usare l'etichetta sharing economy per Uber sarebbe impreciso) su temi decisamente più interessanti. Il punto sul tavolo è fondamentalmente uno: gli autisti di Uber devono considerarsi freelance o dipendenti dell'azienda? La compagnia la pensa ovviamente nel primo modo, quasi 400mila autisti nel secondo. La due maxicause in California e Massachusetts sono state ora disinnescate con un accordo da 100 milioni di dollari col quale il gruppo guidato da Travis Kalanick apre ad alcune garanzie (come una maggiore trasparenza nella gestione dell'applicazione e dei sistemi di rating e un supporto alla creazione di associazioni di autisti freelance nei due stati) ma ottiene dalle parti la loro rinuncia a intentare ulteriori cause per ottenere lo status di dipendente, con tutte le garanzie sociali che ne deriverebbero. E soprattutto stringe ancora di più la cinghia sulla qualità del servizio, che era il terzo – ma non meno centrale – fronte di discussione. Arriveranno infatti nelle prossime settimane dei cambiamenti molto forti nella valutazione dei driver. I giudizi dei clienti avranno un peso elevato che potrebbe condurre al blocco dell'autista, anche per evitare casi certo isolati (dalle aggressioni ai sequestri di persona) ma che hanno inciso non poco sulla brillantezza dell'App di San Francisco. D'altro canto l'azienda s'impegna anche a non far fuori gli autisti che rifiutavano troppo spesso le corse e a spiegare meglio le regole del gioco. Insomma, la strada è chiara: tentare di alleggerire, almeno formalmente, l'aspetto organizzativo per non dare ad alcun giudice, in nessuna parte del mondo, l'opportunità di individuare in quelle strategie gestionali gli estremi di un "datore di lavoro" tradizionale. E quindi far scattare le tutele del caso per i driver. "L'accordo costituisce una significativa vittoria per Uber sul tema dello status dei propri autisti – scrive il New York Times – mantenendoli freelance, la compagnia mantiene bassi i suoi costi. E sebbene l'intesa si applichi solo a due stati e non sia altrove vincolante, i movimenti e i cambiamenti che saranno presi da Uber potrebbero influenzare le amministrazioni in altri luoghi dove si presentino simili problematiche". Rimangono infatti simili cause aperte in Florida, Pennsylvania e Arizona. Al di fuori degli Stati Uniti, quel che conta di questo accordo è che anticipa un percorso a cui assisteremo dalle nostre parti fra non molto. In Francia, Italia, Ungheria, Germania, Belgio, Spagna e altrove siamo ancora alla fase delle multe, dei buchi regolatori, delle barricate. Fasi calde che tuttavia dovranno essere superate da Uber che non può permettersi una presenza europea così granulare, disomogenea e probabilmente (ma i dati non sono ancora chiari) in perdita. In qualche modo dopo aver chiuso il fronte interno Uber libera energie per la campagna d'Europa. Se si risolveranno almeno in parte quegli aspetti politici e legali, arriverà anche da noi il confronto su un argomento che non riguarda solo Uber ma l'intero sistema della sharing economy e forse si avvierà anche un serio dibattito sulla figura del freelance in ogni ambito commerciale. Dovesse andare diversamente, s'inaugureranno tempi durissimi per l'unicorno californiano. fonte: Wired

2016-04-25